Hello, I'm Johnny Cash (Racconto)



Alla fine mi sono detta, perché no. Perché non pubblicare storie in maniera indipendente, senza il medium di case editrici. E soprattutto, storie incominciate e mai finite. Forse vi piaceranno, forse sì forse no. Una storia resta una storia anche senza finale. Questa bozza era stata pensata per una favola su Johnny Cash.



Hello, I'm Johnny Cash


Era il mio idolo assoluto. Un nome bello da pronunciare il suo, Johnny Cash, Johnny Cash, Johnny Cash, cash-cash, con l’aria che ti scivola via tra i denti in quelle ultime due lettere. Shhh. Forte quanto Johnny Guitar, anzi meglio. Ho sempre creduto che spesso fosse il nome a fare la fortuna delle persone. Jimmy Simmons aveva ad esempio un negozio di pneumatici sulla quattordicesima che gli andava piuttosto bene, Billy Gray era proprietario dell’unico bar in città e Gregory Richardson era andato fino in Ohio a vendere le sue camicie. Mary Richfield, invece, abitava di fronte casa mia. Non che quella fosse una buona ragione per non reputarla un gran che ma le sue torte di mirtilli erano pessime e non trovava meglio da fare che chiederci ogni domenica se a me e a mia madre era piaciuta la predica di padre Ralph, ben sapendo che né io né mia madre avevamo mai messo piede in una chiesa in vita nostra. La cosa che mi faceva più rabbia, e a cui in parte davo ragione del mio sconforto, era che mi chiamavo quasi come lei: Mary Rose Rockfield.Odiavo il mio nome e odiavo essere chiamata sia Mary che Rose o Mary Rose. Mi faceva pensare a quei profumi puzzolentosi che si mettono addosso le vecchie oppure mi vedevo come Mrs. Mary Richfield, tra vent’anni, a fare marmellate o strani pasticci di gatto e tacchino. Allora avevo dodici anni e Johnny Cash era la mia unica salvezza.A scuola lo conoscevamo solo io e Kathy Jackson, la mia migliore amica, e questo ci rendeva particolarmente orgogliose in quella tristezza di Holly Spring, quattro capanne sulla Old Mississippi, il cuore sudista dell’America. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui mia madre portò a casa un 45 giri su cui sopra c’era scritto Hey Porter! e Cry, Cry, Cry. Mi disse “lo canta un uomo bellismo. È alto, con gli occhi scuri e buoni e non c’entra niente con Elvis!”. Non mi disse bene dove l’aveva visto ma era tanto che non la vedevo così entusiasta. Secondo me aveva perso la testa.Io e mia madre ci eravamo in quegli anni trasferite a Holly Spring. Io sono nata nello stato dell’Indiana, dove mia madre si trasferì poco prima di avermi per seguire il suo grande amore Ted Cook, ovverosia mio padre, che io non ho mai conosciuto, ma questa è una lunga storia. Un pomeriggio tornò a casa un po’ stralunata (ancora oggi non saprei dire se i suoi grilli in testa erano buoni o cattivi) e mi disse “domani andiamo in Arkansas a trovare i nonni e magari troviamo una bella casetta lì, che dici ti va?”. Al di là che i due argomenti legassero o meno tra loro, “In Arkansas?”, suonava un po’ come una follia. E, visto che forse non era il caso vivere da sola a dieci anni e mezzo, accettai di partire con lei. Dell’Indiana oggi si dice che il massimo del divertimento è indossare una tuta o un berretto con il nome di una marca di macchinari agricoli e andare alla stazione di servizio a spettegolare del povero Elmer che quella mattina non è riuscito a mettere in moto il suo pick up. Non è che a Holly Spring le cose siano poi così diverse, per lo meno per me. Gli anni dell’Indiana, i primi della mia vita, li trascorsi placidamente tra la compagnia di Roosvelt, il cane dei vicini, e il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere di mia madre. Ho il piacevole ricordo delle nostre lunghe passeggiate per le strade alberate, i rossi tramonti e le interminabili distese di granoturco. Mia madre era sempre in casa a scrivere il suo libro e alle sei di sera mi portava fuori con lei. In un modo o nell’altro eravamo sempre insieme. Mia madre si era laureata all’università di Chicago, dove aveva conosciuto Teddy. Mia madre voleva fare la giornalista o giù di lì, poi scelse di seguire mio padre, se avevo capito bene perché mio nonno paterno aveva un’azienda che lavorava il mais e mio padre doveva aiutarlo. Accadde poi che per qualche altra ragione, una ragione di nome Betty Lane, mio padre lasciò mia madre prima che io potessi nascere, così ci ritrovammo in due. Non so che faccia abbia mio padre e non ho mai incontrato i nonni paterni. Infatti porto il cognome di mamma, la signora Elizabeth Rockfield. Se devo essere sincera, questa era la versione di mia madre, l’unica che in realtà io conosca. Non è che non le credessi, ma della vita ha sempre preferito fornire nuove versioni e il livello di fantasia era sempre piuttosto alto.


Il giorno in cui stavo per dire addio all’Indiana e ai cappellini di Elmer avevo la netta sensazione che stava per accadere qualcosa di insolito e che mamma Liz mi stesse nascondendo qualcosa. Era l’estate del 1956 e c’erano circa trenta gradi dentro la sua Ford rossa. Ci volevano circa dieci ore per arrivare a Little Rock così mamma Liz decise di fermarsi a Nashville per la notte, in modo tale cheio non mi stancassi troppo. A occhio, guardando alla cartina, mi sembrava che per St. Louis la strada fosse più breve ma lei diceva che era meglio passare per Louisville e andare poi a Nashville a passare la notte. Nashville sia. Per strada le stazioni di servizio erano ogni trenta miglia e in trenta miglia ci stavano circa sessanta minuti di parole. Alla radio trasmettevano Sonny James, Bud Deckleman, Hank Williams e Hank Snow, Elvis. Leadbelly cantava Where Did You Sleep Last Night? che nessuno poteva allora immaginare nel futuro tra le braccia di un gruppo grunge di Aberdeen. La stazione radio di Eddie Hill era la preferita da mia madre. Trasmetteva soprattutto pezzi rockabilly e country jazz, ballate e qualche gospel. Mamma Liz diceva che le cose stavano cambiando con Elvis, perché lui era bianco ma cantava come un nero. Lei però aveva ormai perso letteralmente la testa per Johnny Cash. Nato il 26 febbraio del 1932, sotto il segno dei Pesci, a Kingsland, in Arkansas, J.R., in arte e in vita Johnny Cash, aveva quell’anno prodotto due dischi di cui uno, Folsom Prison Blues, salì presto in cima alle classifiche country. Proprio quel giorno ascoltai per la prima volta il brano, in una stazione di servizio vicino Elizabethtown, davanti un frappé di fragole e banane. Ascoltavo le parole e guardavo la terra secca della strada, l’asfalto rovente, la polvere. Vidi un tale Roy camminare lungo la strada che portava a Reno. Era un’estate calda, troppo calda per non perdere la testa. Il whisky che gli versarono più volte nel bicchiere non era gran che ma gli rinfrancarono lo spirito, specie dopo aver camminato per ore, lungo la strada infuocata, fuggendo da chissà dove. Poi ci fu una rissa, Roy perse le staffe e sparò. Aveva ancora in tasca il numero di telefono della biondina che da qualche mese lavorava da Sam e poi il buio. Roy era stato educato da buon battista e sua madre era una brava donna.Alla tavola calda c’era un poster del Nevada. Pensai che mi sarebbe piaciuto vivere tra quelle montagne folli, in mezzo al deserto, guidando una macchina robusta a tutta velocità. A quel punto avrei dovuto avere con me una bottiglia con del buon whisky e una scatola di sigari. Poi chiesi a mamma Liz se per il mio compleanno mi comprava la chitarra.Dopo aver fatto il pieno di carburante ci rimettemmo in strada. Nashville era più o meno a tre ore di distanza. Pensai poi che mia madre si chiamava Elizabeth e che noi ci eravamo fermate a Elizabethtown. A pensarci bene mamma Liz assomigliava un po’ alla regina Elisabetta. I capelli lunghi e rossi, la pelle bianchissima erano gli stessi ma sinceramente non ce la vedevo mamma a governare l’Inghilterra. Il nostro sangue era hillbilly e perciò eravamo più vicini ai neri che ai bianchi; solo che a differenza dei neri noi il blues non ce l’avevamo.